La funicolare di Napoli, la prima, è
come un filo interdentale che scende dalla collina del Vomero
attraversando i quartieri popolari fino a Piazza del Plebiscito. È
un posto strano, prima o poi tutti i bambini vengono presi dalla muta
apprensione mentre si avvicina l'altro vagone dal basso, chiudono gli
occhi aspettando l'impatto che non arriverà mai.
In questa folla anonima ed altalenante
che sale e scende tra le due principali zone dello shopping il
ragazzo risaltava per la sua popolare eleganza: indossava giacca e
pantaloni classici, al posto della camicia una maglia nera come i
peli di barba spruzzati sul suo mento. Aveva i capelli rasati, occhi
scuri sotto due folte sopracciglia emanavano determinazione e
amarezza in parti uguali. È inutile soffermarci sull sue disgrazie,
perchè in fondo non interessano a nessuno. Basti sapere che non
erano nulla di speciale. Storie come la sua si sentivano ogni giorno
ai telegiornali. E, diciamocelo, avevano anche stufato un po'.
Tutte le sue qualità potevano
riassumersi nel violino che stringeva nella mano destra. Le dita
callose stringevano lo strumento come un contadino stringeva il
collo della gallina da cui si aspetta il brodo buono. La gente ogni
tanto lo guardava di sottecchi commentando qualcosa. Non ci badò. Da
tempo le sue orecchie avevano imparato ad ignorare i commenti.
Sicuramente era poco dignitoso. Ma la dignità non lo faceva
mangiare, l'elemosina di quella mandria si.
Le porte del vagone obliquo si aprirono e lui entrò insieme a tutta l'indifferenza della folla. Si piazzò a gambe larghe nel centro del vagone. Il violino gia posizionato nell'incavo della spalla. Gli occhi sulla mappa delle fermate sopra la porta che si stava chiudendo.
Otto minuti. Era la corsa diretta. Per
otto minuti avrebbe avuto tutto per se il pubblico più difficile che
possa capitare: fidanzati, massaie, uomini d'affari stanchi dopo una
giornata di lavoro.
Equilibrò il primo scossone del vagone
in partenza mentre l'archetto sfiorava per la prima volta lo
strumento. Chiuse gli occhi scendendo lentamente nel suo
personalissimo mondo fatto di note e movimenti rapidi e serrati. Il
rollio del vagone era fin troppo simile ad una nave tra le onde. La
sua musica iniziò a cavalcarle.
Non sentì i discorsi intorno a se
attenuarsi man mano. In quegli otto minuti c'erano solo lui ed il suo
orgoglio, la sua rabbia le sue note, quelle che aveva composto nel
tinello di casa sua. Il suo orgoglio era come una mollica di pane
buttata ai pesci, la sua musica si allargava come i cerchi sull'acqua
facendo voltare visi indifferenti fino ad un attimo fa.
La melodia salì esponenzialmente in un
susseguirsi sempre più furioso di note, immobile come una statua
continuò a suonare cieco e sordo a tutto quello che c'era intorno.
Il treno iniziò a rallentare, la
melodia calò repentinamente com'era salita raccontando una vita di
alti e bassi mai pareggiati. Mentre il treno si fermò lui aprì gli
occhi, il braccio col violino gli ricadde lungo il fianco. Portò una
mano davanti a se. Non stava chiedendo l'elemosina, il suo era lo
sguardo di un artista che vuol esser pagato dopo un concerto.
E così lo interpretarono in molti
separandosi dai loro prezziosi spiccioli mentre defluivano verso le
uscite.
Un uomo sulla cinquantina con cappello
ed impermeabile si avvicinò porgendogli un cartoncino rigido.
Sorrideva con denti ingialliti dal sigaro spento che teneva tra le
labbra, i capelli grigi simili a nubi di temporale.
“chiamami.” disse e andò via.
Le porte si chiusero, il vagone iniziò
la sua lenta discesa verso il centro storico. Dimenticò di suonare
ancora mentre fissava quel biglietto: il nome non gli diceva nulla ma
poco sotto, un rigo prima del numero di telefono poche parole gli
spiegarono tutto: “direttore artistico del Real teatro San carlo.
Forse era uno scherzo crudele, forse
era un matto. Avrebbe fatto meglio a buttare via quel biglietto.
E se fosse stata la verità?
Aveva Otto minuti per decidere
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