sabato 3 marzo 2012

Funiculì Funiculà


La funicolare di Napoli, la prima, è come un filo interdentale che scende dalla collina del Vomero attraversando i quartieri popolari fino a Piazza del Plebiscito. È un posto strano, prima o poi tutti i bambini vengono presi dalla muta apprensione mentre si avvicina l'altro vagone dal basso, chiudono gli occhi aspettando l'impatto che non arriverà mai.


In questa folla anonima ed altalenante che sale e scende tra le due principali zone dello shopping il ragazzo risaltava per la sua popolare eleganza: indossava giacca e pantaloni classici, al posto della camicia una maglia nera come i peli di barba spruzzati sul suo mento. Aveva i capelli rasati, occhi scuri sotto due folte sopracciglia emanavano determinazione e amarezza in parti uguali. È inutile soffermarci sull sue disgrazie, perchè in fondo non interessano a nessuno. Basti sapere che non erano nulla di speciale. Storie come la sua si sentivano ogni giorno ai telegiornali. E, diciamocelo, avevano anche stufato un po'.

Tutte le sue qualità potevano riassumersi nel violino che stringeva nella mano destra. Le dita callose stringevano lo strumento come un contadino stringeva il collo della gallina da cui si aspetta il brodo buono. La gente ogni tanto lo guardava di sottecchi commentando qualcosa. Non ci badò. Da tempo le sue orecchie avevano imparato ad ignorare i commenti. Sicuramente era poco dignitoso. Ma la dignità non lo faceva mangiare, l'elemosina di quella mandria si.


Le porte del vagone obliquo si aprirono e lui entrò insieme a tutta l'indifferenza della folla. Si piazzò a gambe larghe nel centro del vagone. Il violino gia posizionato nell'incavo della spalla. Gli occhi sulla mappa delle fermate sopra la porta che si stava chiudendo.


Otto minuti. Era la corsa diretta. Per otto minuti avrebbe avuto tutto per se il pubblico più difficile che possa capitare: fidanzati, massaie, uomini d'affari stanchi dopo una giornata di lavoro.


Equilibrò il primo scossone del vagone in partenza mentre l'archetto sfiorava per la prima volta lo strumento. Chiuse gli occhi scendendo lentamente nel suo personalissimo mondo fatto di note e movimenti rapidi e serrati. Il rollio del vagone era fin troppo simile ad una nave tra le onde. La sua musica iniziò a cavalcarle.

Non sentì i discorsi intorno a se attenuarsi man mano. In quegli otto minuti c'erano solo lui ed il suo orgoglio, la sua rabbia le sue note, quelle che aveva composto nel tinello di casa sua. Il suo orgoglio era come una mollica di pane buttata ai pesci, la sua musica si allargava come i cerchi sull'acqua facendo voltare visi indifferenti fino ad un attimo fa.


La melodia salì esponenzialmente in un susseguirsi sempre più furioso di note, immobile come una statua continuò a suonare cieco e sordo a tutto quello che c'era intorno.


Il treno iniziò a rallentare, la melodia calò repentinamente com'era salita raccontando una vita di alti e bassi mai pareggiati. Mentre il treno si fermò lui aprì gli occhi, il braccio col violino gli ricadde lungo il fianco. Portò una mano davanti a se. Non stava chiedendo l'elemosina, il suo era lo sguardo di un artista che vuol esser pagato dopo un concerto.

E così lo interpretarono in molti separandosi dai loro prezziosi spiccioli mentre defluivano verso le uscite.

Un uomo sulla cinquantina con cappello ed impermeabile si avvicinò porgendogli un cartoncino rigido. Sorrideva con denti ingialliti dal sigaro spento che teneva tra le labbra, i capelli grigi simili a nubi di temporale.


“chiamami.” disse e andò via.


Le porte si chiusero, il vagone iniziò la sua lenta discesa verso il centro storico. Dimenticò di suonare ancora mentre fissava quel biglietto: il nome non gli diceva nulla ma poco sotto, un rigo prima del numero di telefono poche parole gli spiegarono tutto: “direttore artistico del Real teatro San carlo.

Forse era uno scherzo crudele, forse era un matto. Avrebbe fatto meglio a buttare via quel biglietto.

E se fosse stata la verità?

Aveva Otto minuti per decidere




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