Montecitorio. La presidente ha appena
chiamato il suo nome. Si aggiusta la giacca alzà per un attimo gli
occhi al cielo con fare teatrale e si avvicina al banco. Nell'aula i
suoi sono radunati in gruppetti, si guardano circospetti mentre nella
sala entrano gli altri deputati.
Tutto è pronto.
Arriva al banco prende la scheda e poi
osserva con fare calcolato la platea davanti a se. Sono tutti
d'accordo, la riunione di ieri ha dato i suoi frutti. Solleva il
braccio con la scheda in modo che sia ben visibile e poi la infila
nell'urna a segnalare il suo non voto.
È il segnale.
Secondini pagati nottetempo chiudono le
porte dell'aula sbarrandole dall'interno. Qualche deputato prova a
darsi alla fuga. Ma è troppo tardi qualsiasi presentimento avesse è
oramai troppo tardi. Dai piccoli capannelli di compagni di partito i
deputati si girano armi in pugno. Il rumore metallico dei caricatori
rimbomba nell'aula.
Sorride, manca poco. Vede tra la folla
un uomo con un gigaro in bocca e un'automatica in mano. Punta verso
di lui. Grida qualcosa, un'invettiva probabilmente. Punta e spara.
Manca.
Fa giusto in tempo a meravigliarsi
prima che una raffica di mitra lo tranci in due. Ma non tutto fila
liscio. I grillini si nascondono tra i banchi mentre il nemico tira
fuori le armi e risponde al fuoco. No, non il nemico, i nemici. Ci
sono almeno tre fronti organizzati in aula mentre anche i grillini
cercano di recuperare un arma per are salva la vita.
I presidenti di camera e senato
esplodono in una macchia di sangue ed interiora. La loro posizione
soprelevata li rende solo dei bersagli più facili. Nel rombo dei
proiettili la Bindi, seminuda e coperta di sangue, corre verso di lui
con un coltellaccio improvvisato. Para con l'Ipad, si tuffa di lato
allunga la mano in cerca di una pistola e la trova nelle fredde mani
di un montiano. Prende la sobria pistola placcata in oro e spara tre
colpi. Al settimo il corpo della Bindi smette di dimenarsi. Si alza
sporco di sangue e cervella.
È tutto finito. I grillini sono
allineati contro un muro. Inginocchiati con le mani dietro la nuca.
Alcuni parlamentari li deridono chiedendo cosa vogliono twittare ora.
I suoi uomini girano per l'emiciclo distribuendo qui e lì
proiettili ai sopravvissuti. Altri si dedicano a stupri e saccheggi
tra i banchi. Alcuni dei suoi sono poco più che bestie, non importa,
l'importante è che facciano il loro lavoro. Alessandra Mussolini
grida oscenità mentre un gruppo di deputati la trascina urlante
verso il cappio. Qualcuno le sputa addosso, uno tira fuori l'uccello,
ci pensa un po' e poi lo rimette dentro “non meriti nemmeno il mio
piscio troia” dice ridendo.
Due ore dopo, nella sala conferenza del
parlamento si comporta come se non fosse coperto di sangue e
cervella, come se non fosse successo niente. Come le Montecitorio non
puzzasse di cordite e merda e sangue.
I giornalisti capiscono l'antifona, lui
sorride, loro guardano basso. Prende fiato
“Finalmente siamo giunti ad un
accordo...”
Matteo Renzi si sveglia sudato nel suo
letto. La sua erezione si alza prepotente tra le lenzuola. Sorride al
buio. Assapora le sensazioni del sogno: l'odore della paura, il tuono
degli spari, la sensazione di trionfo.
È solo, che male c'è.
Ride, un crescendo che deborda
rapidamente nel maniacale.
Magari
per sa.
Magari.
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