sabato 20 aprile 2013

Il segnale


Montecitorio. La presidente ha appena chiamato il suo nome. Si aggiusta la giacca alzà per un attimo gli occhi al cielo con fare teatrale e si avvicina al banco. Nell'aula i suoi sono radunati in gruppetti, si guardano circospetti mentre nella sala entrano gli altri deputati.
Tutto è pronto.
Arriva al banco prende la scheda e poi osserva con fare calcolato la platea davanti a se. Sono tutti d'accordo, la riunione di ieri ha dato i suoi frutti. Solleva il braccio con la scheda in modo che sia ben visibile e poi la infila nell'urna a segnalare il suo non voto.
È il segnale.
Secondini pagati nottetempo chiudono le porte dell'aula sbarrandole dall'interno. Qualche deputato prova a darsi alla fuga. Ma è troppo tardi qualsiasi presentimento avesse è oramai troppo tardi. Dai piccoli capannelli di compagni di partito i deputati si girano armi in pugno. Il rumore metallico dei caricatori rimbomba nell'aula.
Sorride, manca poco. Vede tra la folla un uomo con un gigaro in bocca e un'automatica in mano. Punta verso di lui. Grida qualcosa, un'invettiva probabilmente. Punta e spara.
Manca.
Fa giusto in tempo a meravigliarsi prima che una raffica di mitra lo tranci in due. Ma non tutto fila liscio. I grillini si nascondono tra i banchi mentre il nemico tira fuori le armi e risponde al fuoco. No, non il nemico, i nemici. Ci sono almeno tre fronti organizzati in aula mentre anche i grillini cercano di recuperare un arma per are salva la vita.
I presidenti di camera e senato esplodono in una macchia di sangue ed interiora. La loro posizione soprelevata li rende solo dei bersagli più facili. Nel rombo dei proiettili la Bindi, seminuda e coperta di sangue, corre verso di lui con un coltellaccio improvvisato. Para con l'Ipad, si tuffa di lato allunga la mano in cerca di una pistola e la trova nelle fredde mani di un montiano. Prende la sobria pistola placcata in oro e spara tre colpi. Al settimo il corpo della Bindi smette di dimenarsi. Si alza sporco di sangue e cervella.
È tutto finito. I grillini sono allineati contro un muro. Inginocchiati con le mani dietro la nuca. Alcuni parlamentari li deridono chiedendo cosa vogliono twittare ora. I suoi uomini girano per l'emiciclo distribuendo qui e lì proiettili ai sopravvissuti. Altri si dedicano a stupri e saccheggi tra i banchi. Alcuni dei suoi sono poco più che bestie, non importa, l'importante è che facciano il loro lavoro. Alessandra Mussolini grida oscenità mentre un gruppo di deputati la trascina urlante verso il cappio. Qualcuno le sputa addosso, uno tira fuori l'uccello, ci pensa un po' e poi lo rimette dentro “non meriti nemmeno il mio piscio troia” dice ridendo.

Due ore dopo, nella sala conferenza del parlamento si comporta come se non fosse coperto di sangue e cervella, come se non fosse successo niente. Come le Montecitorio non puzzasse di cordite e merda e sangue.
I giornalisti capiscono l'antifona, lui sorride, loro guardano basso. Prende fiato
“Finalmente siamo giunti ad un accordo...”






Matteo Renzi si sveglia sudato nel suo letto. La sua erezione si alza prepotente tra le lenzuola. Sorride al buio. Assapora le sensazioni del sogno: l'odore della paura, il tuono degli spari, la sensazione di trionfo.
È solo, che male c'è.
Ride, un crescendo che deborda rapidamente nel maniacale.
Magari per sa.
Magari.

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